Eccoci a fare quattro chiacchiere con Nicola Lombardi, ferrarese, classe 1965. Meglio dichiarare subito il suo spiccato interesse per l’horror, e, come rivela in un’altra sua intervista, di essersi formato stilisticamente grazie agli influssi di autori quali Ray Bradbury e Dino Buzzati. Senza dedicare troppo spazio a presentare la sua attività letteraria e di regia, è sufficiente fare un salto sul sito, www.nicolalombardi.com (sguardi sull’abisso), per farsi un’idea dei suoi interessi fanta-horror e dare un’occhiata alla sua ricca bibliografia
Questa volta vogliamo parlare con lui proprio della sua ultima avventura letteraria. I ragni Zingari. Pubblicato recentemente dalle Edizioni XII.
Si dice che un buon romanzo lo si riconosca dall’incipit, ma nel tuo caso, sicuramente un titolo diretto e sferzante come i Ragni zingari ha fatto la sua parte per rendere affascinante l’approccio con il lettore. Ma chi è il vero ragno zingaro? Un ricordo tuo o tu stesso?
Domanda complessa, che richiede una risposta articolata. In prima battuta, i ragni zingari si sono imposti alla mia attenzione come titolo per la loro stuzzicante natura palindroma, e da quel momento hanno attecchito nel mio cervello maturando fino ad assumere una loro corposità, una vita propria attorno alla quale poter cucire un impianto narrativo. È scaturita così questa finta leggenda (dico “finta” solo perché retrodatata, mentre in realtà nasce con questo romanzo), la storia di questi ragni forieri di sventura che escono dagli specchi e rifuggono allo sguardo per strisciare sempre ai margini del campo visivo.
Certo, la tentazione di leggervi una sottotraccia metaforica è forte.
Si. Ed è per questo, immagino, che mi si domanda chi, o cosa, siano veramente i ragni zingari. Le interpretazioni, come sempre, sono libere, e nessuna è vincolante. Personalmente, mi piace vedere in queste sinistre creaturine che zampettano da questo mondo al suo doppio e viceversa una sorta di provocazione nei confronti della limitata e caotica consapevolezza che ciascuno ha di sé stesso. Noi e il nostro riflesso: chi osserva davvero l’altro? Da che parte stiamo? E qual è, se c’è, la parte giusta? Queste considerazioni, se frequentate con assiduità, possono generare disequilibrio, sconforto, o nella peggiore delle ipotesi dissociazione mentale. Lo sdoppiamento simboleggiato dallo specchio è una barriera invalicabile. La nostra mente non ha il potere di varcare quella soglia, la nostra coscienza può solo prendere atto di essere prigioniera, spezzata fra due universi identici ma fondamentalmente capovolti. Solo i ragni zingari sanno attraversare quel confine impunemente, facendosi beffa del nostro disperato desiderio di capire. Ma siccome possiamo almeno seguirli con la fantasia, direi che in fondo anche l’immaginazione umana non è che un temerario ragno zingaro: basta convincerlo a spingersi al di là, e attendere che ritorni a raccontarci cosa ha visto. Se torna.
Credo che tu abbia avuto il coraggio di spezzare la sacralità di un periodo storico rendendolo ambiente di una storia tra il gotico, il possibile e l’impossibile. Una sacralità imposta da una saggistica che si è impossessata della nostra storia e di un mondo di narratori che ha preferito dimenticarsela. Tu no…
Non ho mai avuto la pretesa di scrivere un romanzo “storico”, né tantomeno quella di spezzare sacralità, vere o presunte. Molto umilmente, ho voluto inserire la mia storia in un contesto che ne potesse rispecchiare, amplificandole in scala, le caratteristiche psicologiche dei personaggi, e la scelta è caduta così sui giorni immediatamente successivi all’Armistizio. Tutto perde linearità, ogni certezza si disgrega, ogni passo in avanti diventa un passo nel buio. Nessuno ha più certezze, nessuno sa più veramente cosa fare, si va alla deriva, allo sbando…
E in questo contesto, spicca la figura di Michele, il protagonista de I Ragni Zingari, soldato al fronte albanese, travolto dal turbinio dell’8 settembre, e in fuga verso casa come la maggior parte dei suoi compagni.
Michele si porta dietro, e dentro la testa, questa confusione, un caos emotivo che trova riscontro, al suo imprevisto ritorno dal fronte, nello smarrimento in cui sta macerando la sua famiglia per la sparizione del fratellino Marco. E così, poco alla volta, dalle pieghe delle relazioni fra i personaggi emergono tutte le paure, i rimorsi, le tragedie mai dimenticate, i segreti di sangue sepolti fra leggenda e memoria. La campagna è polverosa, livida, e diventa un’infinita placenta entro la quale si consumano vite rancorose e sempre più precarie, costantemente in bilico sull’orlo di un abisso di follie inconfessate. La famiglia, nucleo di amore e coesione, si trasfigura lentamente, ma inesorabilmente… E in tutta questa pazzia, in questa dolorosa piccola storia che si disperde fra i marosi della Grande Storia, i ragni zingari riemergono da un passato che non è più sondabile per banchettare festosamente sopra i resti di vite ormai perdute.
Questo per quanto riguarda le motivazioni che ti hanno spinto ad individuare nel settembre del ’43 un’adeguata cornice in cui inserire la vicenda. Ma non è che oggi ce la passiamo poi tanto meglio, a ben guardare.
No. E non si confonda con arido disfattismo quello che a mio vedere è solo un disincantato realismo. A livello di incertezze, di perdita di punti di riferimento, di confusione politica, sociale, economica, morale, ovunque si volti lo sguardo, mi pare proprio che i nostri tempi non scherzino affatto. Violenza, corruzione, decadenza: ecco cosa vedo dentro il nostro specchio. Temo che i ragni zingari possano tornare. Anzi, quasi quasi me lo auguro!
E pure noi!
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