Con un paradosso degno di un quadro di Magritte, sulla copertina di questo romanzo andava posta la scritta: “questo non è un romanzo”. Il paradosso sarebbe stato anche utile a distrarre il lettore da una questione importante: stabilire cosa sia questo libro.
Paul Collins è un professore di letteratura dell’Oregon con la passione per i libri poco conosciuti (se non addirittura sconosciuti): appoggiandosi alla casa editrice McSweeney’s porta avanti la collana Collins che presenta “libri introvabili”: quale migliore modo di pubblicizzare questa sua collana di “chicche” librarie se non infarcire un romanzo con “chicche” librarie?
“Al paese dei libri” segue contemporaneamente ben tre linee che raramente si incontrano con effetti soddisfacenti. C’è la parte biografica in cui Paul Collins abbandona la California per trasferirsi a vivere ad Hay-on-Wye («un rifugio per chi scappa dalle grandi città e dai tentacoli dei loro editori e dei loro commercianti»), ameno paesino della campagna britannica noto per essere “bibliofilo” all’ennesima potenza, malgrado la successiva narrazione non confermi affatto questa premessa. Qui Collins vuole far crescere il proprio figlio e pubblicare il suo primo romanzo (che sarebbe poi uscito in Italia con il titolo “La follia di Banvard”), la cui gestazione è lunga e difficile: in realtà tutto si riduce a una lunga - né tragica, né comica - ricerca di una casa in cui abitare.
La seconda linea è uno dei più radicati stereotipi statunitensi: la voglia irresistibile di criticare e prendere in giro i paesi da cui si è affascinati. Da un personaggio che sceglie volontariamente di dare l’addio al proprio Paese d’origine per un Paese diverso, ci si aspetterebbe un minimo di ammirazione o anche solo di rispetto per la nuova patria: invece lunghi, noiosi e fastidiosi capitoli di questo libro sono dedicati a descrivere i vizi della cultura britannica, ad irriderla - seppur velatamente - e a criticarla. Al lettore esterno alla questione viene da chiedersi: caro Collins, se il Regno Unito ha una cultura così ridicola, perché ci sei andato a vivere? Esistono altri Paesi al mondo...
Vista l’esiguità e l’assoluta inadeguatezza delle prime due linee del libro, l’ultima linea è probabilmente quella principale, quella cioè che ha spinto l’autore a pubblicare questo suo romanzo-non romanzo: la passione cocente per i libri dimenticati. “Al paese dei libri” è letteralmente tempestato di gioielli di bibliofilia, di chicche librarie e di aneddoti gustosi e stravaganti inerenti libri antichi (quasi sempre a cavallo tra Otto e Novecento e in lingua inglese, con qualche rara incursione altrove). Visto che è più che evidente quanto l’autore ami l’argomento, così come sembra chiaro che è l’unica tematica che sia in grado di trattare risvegliando un qualche interesse nel lettore, ci si chiede come mai non abbia fatto un libro che raccogliesse solo chicche librarie: un eventuale “Raccolta di aneddoti da libri dimenticati” non avrebbe certo venduto altrettanto, né sarebbe stata un’ottima pubblicità, rispetto ad un romanzo-non romanzo che potrebbe far pensare ad argomenti “intellettuali”, ma sarebbe stata operazione più onesta.
Poco c’è quindi da salvare di questo “Al paese dei libri”, se non gli stuzzicanti aneddoti - spruzzati sul testo quasi sempre a caso - tratti da rare e introvabili edizioni di libri dimenticati, estratti molto probabilmente dal catalogo Collins.
Abbiamo Madge Jenison, direttrice della libreria In senso orario che dopo aver con fatica convinto un cliente a comprare l’ottimo libro “La teoria della classe agiata” di Thorstein Veblen, scopre poi che quel cliente è Veblen in persona; un libro di storia futura intitolato “Mosca 1979” e scritto nel 1940 con un’operazione di orwelliana memoria; la biografia della cameriera di Hitler che invece risultò essere null’altro che una truffa di due giornalisti; Caspar Yost che era in collegamento mediatico con una scrittrice morta secoli addietro, Patience Worth, e scriveva per lei romanzi e poesie. “Al paese dei libri” trova solo qui la sua forza: nella “zoologia letteraria” che mostra con sguardo attento e divertito. Per tutto il resto non sembra esserci speranza...
Una curiosità. L’autore cita uno scrittore (Riccardo Nobili) che riunì in un volume di inizi Novecento (The Gentle Art of Faking, “La nobile arte del falso”) le storie legate ai vari tipi di falsi, e cita il caso curioso di un professore (Louis Huber, di Würzburg) che venne truffato sino al punto da pubblicare un libro, con tanto di illustrazioni, con tutti resti fossili risultati in seguito dei falsi. Collins si chiede se sia possibile recuperare questo libro pieno di fossili falsi, ma non avendo trovato alcuna traccia del titolo e non avendo trovato in alcuna biblioteca un pur singolo riferimento al professor Huber, chiude la questione ipotizzando un ulteriore falso: tutta la storia, cioè, forse non è che una leggenda metropolitana.
Vorremmo far giungere un messaggio a Collins: nel suo libro probabilmente Nobili ha confuso i nomi, perché quanto narrato corrisponde in modo perfetto alla vicenda del professor Adam Beringer, anch’egli di Würzburg. Nel 1725 fu appunto vittima di uno “scherzo”: volle credere per buoni alcuni fossili vistosamente falsi e ne pubblicò scoperta e illustrazioni in un libro, che però è ben conosciuto: “Lithographia Wircerburgensis” (1726). Guido Ruggieri racconta nel suo “La scoperta dei fossili” (Mondadori 1975) che il povero Beringer, scoperta la truffa, passò il resto della vita a cercare copie del suo libro... e a bruciarle! Peccato che Collins non abbia avuto questa informazione, quando è passato a trattare brevemente dei libri dati alle fiamme dai propri autori.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID