Magari ne abbiamo sentito parlare tutti, ma alzi la mano chi abbia meno di trenta anni e abbia letto un romanzo di John Dickson Carr. Temo che le mani sarebbero pochine, più o meno quelle dei volontari al battaglione per una corvée cucina: chi ha fatto il militare di una volta sa di cosa parlo. E non credo che andrebbe meglio se chiedessi di Carter Dickson, che poi mutato nomine è sempre lui.
Ed è un peccato, perché JDC, di cui è ricorso da non molto il centenario della nascita, è stato davvero uno dei grandi dell’altro secolo. Grande in tutto, a cominciare dalla prolificità. Oddio, magari esagero in pessimismo: forse qualche baldo giovanotto conoscerà senz’altro uno dei romanzi che ha per protagonista il dr. Gideon Fell, questa specie di Falstaff sornione e idropico, sbuffante come un mantice sfondato, sempre pronto a sollevare il boccale di birra e a giungere a conclusioni azzardatissime. Che tra l’altro è l’unico tra i suoi personaggi attualmente reperibile in catalogo con qualcuna delle sue avventure, non dappertutto e con qualche affanno. JDC è stato pubblicato quasi integralmente in italiano, ma di tutti i suoi romanzi sì e no una decina sono usciti dal circuito delle edizioni da edicola, per approdare nelle librerie. E chi volesse affrontarne la prima lettura non avrebbe altro da fare che ricorrere al difficile prestito di amici, o a esplorazione di bancarelle.
Per JDC niente di nemmeno lontanamente paragonabile all’edizione critica che Adelphi ha dedicato a Simenon. E invece se la meriterebbe, lui che è stato creatore insuperato di iperbolici enigmi, con due temi ricorrenti come una metafora ossessiva: il delitto nella camera chiusa e il delitto compiuto in condizioni impossibili, per esempio sotto gli occhi di numerosi testimoni, condannati a non veder nulla. Eppure quest’uomo, che non ha inventato nulla di originale, che si è limitato a portare all’eccellenza la formula della detection che aveva altri padri, l’uomo che ha reso omaggio a Conan Doyle fino a farsene biografo e epigono, questo scrittore è oggi il meno invecchiato dei grandi vecchi.
Forse è proprio per quel senso di straniamento costante che attraversa tutta la sua opera, quell’atmosfera artificiale che regna nelle sue ville di campagna, nei suoi castelli tenebrosi, nei sui club così inglesi che più inglesi non si può. Ricorda la sensazione costante di “abbellimento delle cose” che ci trasmettono i film di oggi, in cui un’esasperata post-produzione riamalgama e corregge ogni sfrido nelle luci, nei colori, nei suoni fino a consegnarci non la realtà, ma l’idea della realtà che vive solo nella mente del cinematografaro. Ci sediamo, fissiamo lo schermo, crediamo di essere che so a Londra, e invece siamo solo entrati nel paesaggio mentale di qualcuno. Da un’altra parte.
Probabilmente invece la verità è quella più semplice che viene raccontata nella sua biografia (nota: JDC è uno dei non molti giallisti che ha avuto la gloria di essere biografato, il che è tutto dire). Quella di un grande e assiduo lavoratore della parola, innamorato del suo mestiere. Con quel volto che sembra fatto apposta per spuntare da una copertina, che ricorda tanto quello di David Niven. Con la stessa aria sorniona da vero gentleman inglese che sembra fatta apposta per incarnare alla perfezione il tipo dell’attore brillante o dello scrittore anni Trenta-Quaranta, la sua immagine farebbe la gioia di ogni sostenitore dell’esattezza della fisiognomica.
E cosa c’è dietro quella faccia? Trame incredibili, a profusione. JDC ha scritto molto. È una penna del calibro dei Wallace, dei Rohmer. Dei Simenon. È un Balzac del veleno e della pugnalata. Ha al suo attivo un’ottantina tra romanzi e raccolte di racconti. E tutto questo da solo, perché non risulta che abbia mai fatto ricorso a aiutanti o negri che dir si voglia.
E in più scritti per il teatro e radiodrammi. Prima dicevo che non ha inventato nulla: sono stato ingiusto, perché la formula che JDC mette a punto per i suoi radiodrammi, la struttura narrativa ricorsiva, la cornice della voce fuori campo che introduce e termina l’episodio, la miscela di investigazione e terrore, di razionalità criminosa e intarsi soprannaturali, li ritroveremo poi come schema base di tutta la prima generazione delle serie televisive, da The Twilight Zone a Hitchcock.
Un David Niven americano, però. Perché nonostante la sua aria inglese, e i baffetti da pilota della Raf, JDC è americanissimo, nato in Pennsylvania. Figlio di un avvocato, è appena un filo più giovane della generazione di espatriati che viene ad abbeverarsi alle fonti europee negli anni Venti. È a partire dalla fine del secolo prima che in America è cominciato il riflusso: i padri come Henry James tornano a cercare le proprie radici, i figli come Scott Fitzgerald vengono a spenderci i loro soldi e a cercare il fantasma della felicità. JDC viene anche lui a Parigi, ma non si innamora della città. Anche se la userà come esotico sfondo dei suoi primi romanzi.
Quella di JDC è la Parigi misteriosa di dieci, quindici anni prima, quando trionfava il Grand Guignol e nelle sue strade misteriose anche Proust poteva sognare che dietro le imposte chiuse si accendessero vicende fascinose degne delle Mille e una notte. I suoi lastricati umidi, le sue ombre sono le stesse dei sogni di Edgar Allan Poe, e sono il regno di Henri Bencolin, sulfureo dandy e giudice istruttore, come si immagina che possa essere dandy un giudice istruttore parigino. L’uomo che indossa lo smoking come abito da lavoro e si arriccia i capelli ai lati della fronte per alludere maliziosamente agli attributi dei diavoli da operetta. In Bencolin c’è molto proprio del Grand-Opèra francese, ma anche delle pochade criminose che ogni notte vengono allestite nel teatrino de l’impasse Chaptal.
JDC gli dedica cinque romanzi, prima di passare la mano ad altri investigatori. È che l’autore cresce in fretta, l’esotismo giovanile, il gusto per il terribile esasperato lascia il posto all’ironia, al gioco intellettuale. Poe e Conan Doyle cominciano a ritrarsi leggermente, mentre si fanno avanti altri mentori, Chesterton (addirittura omaggiato nel fisico del personaggio di Gideon Fell) e P.G. Woodhouse, tanto ripreso nell’arguzia e nell’affabilità da indurre quasi tutti a credere, quando compare la prima storia di sir Henry Merrivale, che dietro lo pseudonimo anche troppo trasparente di Carter Dickson si celi proprio il papà dell’ineffabile Jeeves.
Non è un caso che con il ritorno in America si esaurisca anche la fase più creativa del suo genio narrativo. Non che smetta di scrivere, tutt’altro. I romanzi con Gideon Fell, quelli con sir Henry Merrivale si arricchiscono di nuovi compagni, Carr tenta anche la strada del giallo storico, quando non del romanzo storico tout court, con risultati da par suo. L’ombra del grande Conan Doyle è sempre alle sue spalle, anche in questo.
JDC ha fondato le sue fortune letterarie, come una specie di artista circense, sul tour de force. Il suo assunto è sempre invariabilmente lo stesso: come si può commettere un delitto in circostanze letteralmente impossibili? È famosa la sfida che lo contrappose ad altri maestri del crimine: come si può far sparire qualcuno da una cabina telefonica, in piena luce e sotto gli occhi di testimoni? La risposta è ovvia: non si può. E infatti non è mai accaduto. Come del resto si compulserebbero inutilmente gli annali del crimine reale, alla ricerca di un delitto compiuto in una camera vuota chiusa dall’interno. Nessuno è mai stato assassinato così, per l’ottimo motivo che è impossibile.
Perché il gioco funzioni non c’è tanto bisogno della suspension of disbelief, quanto più spesso di una assurdità in premessa, una contraddizione in termini che non si risolve: per quale motivo al mondo menti lucide di assassini dovrebbero complicarsi la vita costruendo artificialmente un quadro assurdo per poi poterlo sviluppare logicamente?
All’americano Carr questa storia della corda insaponata, che fa tanto pirateria del secolo XVII, deve proprio essere rimasta impressa, lui che viene da un mondo molto più moderno in fatto di esecuzioni capitali. E ci torna sopra spesso nei suoi racconti, questa immagine della forca è un specie di leit motiv. Sembra quasi che per lui il delitto non sia altro in fondo che proprio questo, una romantica e sportiva sfida con la corda. Il resto è secondario.
Perché in tutti i romanzi di Carr quello che conta meno è il movente: non che non ci sia, naturalmente. Anzi, qualche volta è addirittura banale: odio, invidia, rancore, denaro. Non è quello che gli interessa: il criminale non è un fattore logico, è un agente del meraviglioso. La sua funzione è quella di scompaginare il nostro quadro di certezze, stroncare la monotonia delle nostre esistenze borghesi. Dare un fondamento attuativo a quella che de Quincey chiamava la più bella delle arti, ma non con gli scopi morbosi e sottilmente decadenti del maestro di Poe e Baudelaire. In Carr il delitto ha la stessa funzione del cilindro del prestigiatore, quella di attrarre i nostri occhi, spalancarli e riempirli di meraviglioso.
Ma purtroppo ha scelto un mestiere più difficile, ha uno svantaggio rispetto ai suoi rivali in frac: l’illusionista disalbera la nostra percezione del reale, e mentre siamo lì a bocca aperta ammirati o sottilmente seccati per essere stati presi in giro, si inchina e ci lascia con un palmo di naso, sparendo tra gli applausi. Lo scrittore invece alla fine ci deve spiegare il trucco, ed è lì che arriva il difficile. C’è il rischio che la reazione sia Ah sì? Così semplice? Oppure un Ma va’, non è mica possibile. È il suo rischio professionale, al quale non può mai sottrarsi.
In questo senso le soluzioni di Carr sono sempre ingegnose, qualche volta strampalate, molte volte geniali. La conferenza del dr. Fell ne The three coffins sul problema della camera chiusa resta un piccolo monumento in materia, continuamente citato. Certo qualcosa JDC se l’aggiusta un po’: le sue case hanno un pianta comme il faut, c’è sempre un vicolo dove deve stare, una porta dove è utile che sia. Se serve la nebbia c’è la nebbia, e quando ci si sposta i mezzi pubblici funzionano alla perfezione, mai un semaforo rosso, mai una foratura. E qualche volta i suoi fondali sono proprio quelli di un teatro, che salgono e scendono quando serve. Più di uno dei suoi circoli di fans ha provato a ricostruire planimetricamente lo scenario dei suoi racconti, e pare che non ci si riesca proprio. Il più gettonato è lo Skull Castle dell’avventura di Bencolin sul Reno: ci si sono provati fior di architetti, ma insomma non si capisce proprio come dovrebbe essere fatto, peggio di una di quelle assurdità zuccherose di Ludwig di Baviera. Ma che importa? Noi vogliamo sapere se il misterioso Maleger, il diabolico illusionista, sia davvero tornato dal regno dei morti: e se poi dalla torre nord non si può passare a quella sud, che si fottano le torri. Più di settanta anni dopo la prima uscita, chi diavolo ci pensa più? Che ci importa, se la forza del mistero evocato a parole ci trascina lui, ci fa fare tutti i salti di torre in torre che servono?
A proposito: se anche per il Nostro partirà la moda degli apocrifi, e qualche editore vorrà lanciare un’antologia à la Dickson Carr, io mi propongo per rifare proprio Bencolin. Il più improbabile: acuto, charmant, lezioso, misuratamente crudele, irascibile. Senza l’insopportabile e un po’ loffia debordanza fisica di Fell, senza l’etilismo manierato di Merrivale. Un vero signore della Parigi che fu, falso come un baiocco di legno. Straordinario.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID