Il momento è arrivato: ogni puntata di questo speciale ha portato in un’unica direzione. Alla storia d’assedio definitiva, al caposaldo che per sempre rimarrà punto di riferimento obbligatorio per chiunque voglia raccontare una storia simile. Stiamo parlando del piccolo capolavoro di un regista che da solo ha cambiato il modo di fare cinema: Distretto 13: le brigate della morte (Assault on Precint 13, 1976) di John Carpenter.
Il film è girato in ristrettissima economia, quasi in perdita, e la trama non può svilupparsi più di tanto per gli ovvi problemi finanziari. Il 13° distretto di polizia di Los Angeles viene dismesso e il tenente Bishop (Austin Stoker), al suo primo incarico, deve occuparsi della chiusura. Non sa che una pericolosissima gang cittadina ha dichiarato guerra alla comunità, e sta inseguendo un uomo che ha osato spararle contro. L’uomo in questione si rifugia nel distretto 13 in smantellamento, condannando tutti a morte: riusciranno un poliziotto, due segretarie e due criminali a sopravvivere all’attacco di un fiume di criminali assetati di sangue?
Dietro uno stile scarno e quasi spoglio, c’è tutta la potenza di John Carpenter, uno dei maestri incontrastati di un cinema ben presto dimenticato: il suo motto potrebbe essere benissimo «datemi una briciola e vi creerò un universo».
La potenza del film non è solo nelle immagini ma nella potenza devastante che da esse emana. È nella bambina che, con il gelato in mano, viene raggiunta dalla pallottola del criminale (in un’epoca in cui si potevano mostrare cose del genere sullo schermo). Non c’è splatter, non ci sono grida né alcun tipo di sottolineatura emotiva. Con una macchia sul petto, la bambina semplicemente si accascia: la potenza devastante è tutta negli occhi dello spettatore.
Chi va al cinema è anestetizzato alle gang criminali, viste in miliardi di salse diverse. Le uniche al mondo a fare veramente paura sono quelle di Carpenter, semplicemente perché... non fanno assolutamente niente! Non sono criminali violenti, non sono sadici, non gridano, non ridono, non sparano milioni di proiettili, non corrono, non si agitano. La loro è una violenza incomprensibile, muta: si muovono e uccidono, senza perché, senza motivi, senza possibilità di comprensione. E questo crea il panico.
Non sfugga l’anno del film: prima del secondo film sugli zombie di George A. Romero, Carpenter rielabora il tema de La notte dei morti viventi (1968) calandolo nella città violenta. I criminali di Assault on Precint 13 sono in tutto e per tutto degli zombie - e proprio come nella pellicola di Romero cercano di penetrare nel “fortino” senza emettere alcun suono ed anzi con una furia cieca e priva di ragionamento, quasi primordiale - ma mettono ancora più paura perché... sono veri!
Ma Carpenter è anche di più. Quando i criminali-zombie tentano di entrare nel distretto, si comportano tutti nella stessa maniera ed emettono tutti lo stesso rumore: il tonfo sordo di pistole con silenziatore. Tutt’altro discorso per gli eroi all’interno, ognuno con un’arma diversa e ognuno con rumori differenti, ognuno con comportamenti e idee diverse. Non è uno scontro fra buoni e cattivi, bensì fra libertà di pensiero e di comportamento contro l’omologazione, da sempre motivo di terrore per gli spettatori ameritani.
I richiami al grande cinema western d’assedio sono chiari e dichiarati: non a caso l’escamotage finale di sparare alla dinamite sembra arrivare direttamente dalla scena finale di Rio Bravo di Howard Hawks, da sempre indicato come film che Carpenter ha voluto rifare in chiave cittadina.
Lo sottolinea, all’uscita del film nel nostro Paese, anche il quotidiano “La Stampa” (23 giugno 1979): «Distretto 13 più che un poliziesco è un film d’azione con insistiti riferimenti a posizioni drammatiche tipiche di quei western in cui si vedono sceriffi bloccati in ufficio da outlaws. Nello sviluppo furente e vermiglio dell’azione stessa non c’è approfondimento dei caratteri, e le motivazioni sociali (la periferia ghettizzata d’un immenso centro urbano alla facile mercé d’una delinquenza organizzatissima) non sono sottoposte ad analisi alcuna. Però il giovane Carpenter ha un vigoroso mestiere, un occhio cinematografico sicuro e polso fermo anche nella guida degli interpreti.» Anche gli italiani insomma si accorsero che il “giovane” Carpenter aveva stoffa da vendere.
Da quel giorno ogni altro film anche solo vagamente di assedio - comprese le successive pellicole di Romero - dovranno fare i conti con il Precint 13 di Carpenter, che scrive le nuove regole per il cinema d’assedio: basta canzoni, basta scazzottate e bevute, basta moralismo spicciolo. C’è solo l’istinto di sopravvivenza da entrambe le parti, ma mentre i “cattivi” sono spinti da cieca violenza i “buoni” cercano di usare l’intelligenza per uscirne vivi.
Tutto questo, nella sana tradizione americana, viene smantellato nell’immancabile remake del film, diretto nel 2005 dal bravo Jean-François Richet. Al di là di pochi accenni, nulla rimane del film di Carpenter, dando spazio ad un cumulo di tristissime banalità. (Il colpo di scena finale si capisce prima ancora che inizi il film!) Per fortuna la pessima e irritante pellicola è già caduta nel dimenticatoio dove è giusto che stia.
Tacendo quindi dell’indegno remake, che tradisce ogni singolo fotogramma del film originale, Assault on Precint 13 rimane un film di culto pur nascendo senza questo intento. E visto che strizza l’occhio a Rio Bravo di Hawks, anch’esso deve avere un tema musicale rappresentativo: e Carpenter non si è mai tirato indietro di fronte alle colonne sonore. A parte rari casi ha sempre voluto occuparsi anche di quell’aspetto dei suoi film, e in questo caso regala uno dei più celebri temi sonori del genere, adattato da Kenny Lynch per la voce calda di Jimmy Chambers (canzone che si può sentire nei titoli di coda e di testa in alcune versioni del film).
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