Abbiamo visto nella precedente puntata che fino all’Ottocento per gli inglesi la parola nightmare, di antica discendenza sassone, era di utilizzo abbastanza vago. Per i manuali medici serviva ad identificare i disturbi del sonno, ma è un uso tardo: sin dalla notte dei tempi il popolo identifica nel termine il demone notturno per cui si scrivono filastrocche scaramantiche.

Quando nell’Ottocento gli italiani si trovano nella condizione di dover tradurre il nightmare, nascono dei problemi: come rendere qualcosa che neanche gli inglesi sanno identificare bene?

     

Stiamo parlando della filastrocca scaramantica presente nel Re Lear di William ShakespeareHe met the Night-Mare / and her nine foals»), scritto probabilmente intorno al 1606. Assodato che neanche l’autore sapesse bene cosa fosse un nightmare (visto che non lo usò mai in alcuna altra opera con la stessa firma e che esistono versioni differenti del testo, in cui può leggersi anche nightmoore), come può un traduttore italiano rendere bene quel termine?

Il problema in Italia si è posto molto tardi perché il teatro shakespeariano è stato praticamente sconosciuto per quasi due secoli. Quando a metà del Settecento Voltaire criticò fortemente l’opera del drammaturgo britannico, si alzò il grido di Giuseppe Baretti - un titano del nostro Paese, che come tutti i nostri titani è stato dimenticato - che scrisse un’accorata difesa di Shakespeare, tanto che i distratti teatranti italiani si posero una domanda: perché non mettiamo in scena anche noi le opere di questo tizio inglese? Nessun problema, ma al pubblico italiano bisogna parlare in italiano, e qui nacque il problema: come tradurre quella strana filastrocca del Re Lear?

Come ci racconta Leonardo Bragaglia nel suo Shakespeare in Italia (Persiani 2005), delle sperimentali rappresentazioni di fine Settecento si è purtroppo persa traccia, ma in seguito abbiamo una buona panoramica dei tentativi dei traduttori italiani, i quali fecero un ragionamento chiarissimo: nightmare, che sia il demone notturno sassone dell’immaginario popolare o che sia la patologia medica dell’oppressione notturna, ha un perfetto corrispettivo nel latino medievale. Incubus, non si scappa. Sin dalla nascita della lingua italiana l’“incubo” è tanto demone notturno che oppressione del sonno: combacia alla perfezione.

Prima traduzione italiana del "Re Lear", a cura di Michele Leoni (Verona 1821)
Prima traduzione italiana del "Re Lear", a cura di Michele Leoni (Verona 1821)
Non ha quindi dubbi Michele Leoni quando, nella Verona del 1821, presenta in italiano la corposa opera shakespeariana. Nel volume XI troviamo il Re Lear e la sua filastrocca: «Tre volte s. Withold traversò la pianura, / E incontrò l’incubo e la sua compagna: / Le ordinò di scendere, / E d’impegnar la sua fede. / Ti allontana, o strega: ti allontana!». Ecco la traduzione della “formola magica” (come la chiama il Leoni in nota) nella sua prima veste italiana.

Ma... e la “cavalla della notte”? Con buona pace di Füssli e Borges, che amarono quest’immagine, nessun traduttore italiano ci ha mai pensato. L’unica soddisfazione arriverà da Igina Tattoni, che nel 2003 per Donzelli traduce La leggenda di Sleepy Hollow - ristampato poi come Il mistero del cavaliere senza testa - e coglie alla perfezione la citazione shakespeariana che l’autore Washington Irving nel 1820 inserisce nel testo. «Nel circondario abbondano leggende locali, luoghi abitati dagli spiriti e vaghe superstizioni; si vedono stelle cadenti e meteore luminose più spesso che in qualunque altra parte della regione, e la giumenta notturna con tutti i suoi nove compagni (night mare and her nine folds)».

    

I traduttori italiani ottocenteschi non hanno problemi sull’uso di un termine all’epoca ancora poto noto come “incubo” per night-mare, distratti come sono da un altro bel problema: come tradurre quel curioso her nine foals o folds?

Come abbiamo visto il Leoni si inventa una fantomatica “compagna” dell’incubo, mentre Giulio Carcano (Napoli 1854) traduce «E a lui d’incontro l’Incubo venìa / Co’ nove figli suoi». Sembra una traduzione decisamente più fedele, ma qualche anno dopo ritorna il tema della compagna: «Scontrossi nell’incubo e nella sua amica», traduce Carlo Rusconi (Torino 1859).

Intanto la scelta di usare l’incubus medievale piace così tanto che attraversa le Alpi: quando nel 1872 François-Victor Hugo (figlio del celebre Victor scrittore) si impegna nella traduzione francese dell’opera omnia shakespeariana (Œuvres complète de Shakespeare), ne Le Roi Lear troviamo la particolarissima espressione «Il rencontra l’incube et ses neuf familiers». Per quanto ampiamente attestato, il francese incube non è di uso comune e gli è di gran lunga preferito cauchemar, ma il buon Hugo-figlio ha capito quello che agli italiani ancora sfugge: per tradurre quella filastrocca, quel night-spell che ai tempi di Shakespeare era usato per scacciare gli spiriti, non si può utilizzare un termine “illustre”.

Intanto passa il tempo e non mancano traduzioni italiane assolutamente alternative. «La diavolessa incontrò e le sue nove compagne» scrive a sorpresa Agostino Lombardo (Verona 1973). Che sia femminile è finalmente un’idea azzeccata: come abbiamo visto nella puntata precedente, il marë sassone era il nome femminile del demone Mårt.

Sulla stessa linea troviamo Cesare Vico Lodovici che, quando traduce il Re Lear per Einaudi nel 1956, aggiunge qualcosa di molto importante. «Finché non incontrò / con le nove compagne la Versiera». Che cos’è una Versiera?

      

Il Lodovici è andato a pescare un termine italiano dimenticato da molto tempo, una contrazione di “aversiera”, che sarebbe la versione femminile dell’Avversiere: visto che quest’ultimo è l’avversario dell’uomo, cioè il diavolo, la Versiera è un modo come un altro per dire diavolessa. Ma c’è qualcosa di più.

Sin dall’Ottocento il Dizionario della Crusca ci informa che Versiera è un termine usato a Firenze per indicare quello che a Roma viene chiamato Lupo Mannaro. Non stiamo parlando della licantropia che tanto affascina scrittori e cineasti moderni, ma di demoni inventati dal popolo a mo’ di spauracchi per i bambini, i quali bambini poi per scongiurare detti demoni inventano filastrocche scaramantiche. E qui scopriamo che il Lodovici ha fatto il primo grande passo per una traduzione fedele: invece del medievale e dotto “incubo” ha scelto un termine popolano, nato dalle stesse leggende che hanno alimentato il nightmare di Shakespeare.

Maria Gaetana Agnesi
Maria Gaetana Agnesi
È davvero curioso notare che proprio come nightmare anche la Versiera ha un’accezione popolana e una colta. Tratta dal latino vertere, “girare”, la versiera è anche il nome di una curva geometrica. La studiò a fondo e la codificò la settecentesca Maria Gaetana Agnesi - matematica talmente apprezzata all’epoca da essere considerata la Ipazia italiana, e come tutti i personaggi di spicco italiani anch’essa dimenticata - tanto che ancora oggi viene comunemente chiamata la “versiera di Agnesi”, sebbene fosse già nota a Fermat nel 1666.

Lo smacco arriva quando nello stesso momento in cui gli italiani cercano di tradurre nightmare, gli inglesi cercano di tradurre i testi di geometria della Agnesi: come rendere in inglese la versiera? I traduttori si informano e scoprono l’accezione popolana del termine, e così la curva geometrica nota come “versiera di Agnesi” è ancora oggi attestata in inglese come... The Witch of Agnesi, “la strega di Agnesi”!

Povera Maria Gaetana: dimenticata dagli italiani e considerata una strega dagli inglesi.

       

I traduttori dovrebbero sempre stare attenti alla vita segreta delle parole: anche le più blasonate ed autorevoli hanno una doppia vita che spesso sfugge ai dizionari.

L’incubo del Medioevo latino è parola di grande autorevolezza, che abbonda in tutti i manuali dedicati al sonno o alla stregoneria, ma proprio questo sfugge ai primi traduttori di Shakespeare, che avrebbero dovuto chiedersi come mai i padri della lingua italiana - Dante, Petrarca e Boccaccio - non la usarono mai. Forse che non si facevano brutti sogni nel Trecento? Visto che ovviamente li facevano, come li chiamava il popolo? Quel popolo che non aveva accesso ai manuali e ai dizionari che parlavano di “incubo”.

Ci sono stati traduttori italiani che si sono resi conto che non potevano rendere con una parola dotta un termine popolano. C’è stato almeno un traduttore di Shakespeare che ha deciso di fare una ricerca approfondita in groppa alla “cavalla della notte” chiamata nightmare. Un traduttore che ha viaggiato nella lingua italiana fino a trovare il perfetto equivalente shakespeariano nel nostro Paese, fino a trovare il vero nome italiano dell’incubo... Ma ne parleremo nella prossima puntata.