Ancora negli anni Ottanta del Novecento era comune fra i bambini una filastrocca, attestata in varie versioni ma che suonava all’incirca così: «Ponte ponente ponte pi, tappe tapperugia». Nessuno aveva idea di cosa volessero dire quelle parole, perché tutti i bambini che la cantavano - compreso chi scrive - ignoravano che stavano ripetendo una maccheronica traduzione fonetica di una filastrocca francese, «Pomme de reinette / et pomme d’api / tapis tapis rouge».
Immaginiamo che io all’epoca avessi scritto un romanzo, un’opera giovanile rivalutata in seguito e divenuta un bestseller, con all’interno riportata la suddetta filastrocca. Immaginiamo che dato il successo dell’opera entri nella lingua italiana il termine “tapperugia”. Cosa accadrebbe? Che in un lontano futuro, quando ormai la filastrocca maccheronica sarà andata dimenticata, i recensori e gli studiosi affermerebbero: «Il termine “tapperugia” risale alla celebre opera giovanile di Lucius Etruscus, anche se lo usò una volta sola e non lo ripeté mai nei suoi molti altri romanzi.» Ma il problema più grave sarebbe: come tradurre “tapperugia” in un’altra lingua?
È solo una fantasia, ovviamente, un gioco letterario... Ma curiosamente è anche simile a quanto è successo con la parola “nightmare”.
Il termine in sé è molto antico e affonda le radici nella cultura sassone, quando il demone Mårt vedeva il suo nome declinato anche al femminile in marë: l’attività del demone era quella di sedere nottetempo sul petto dei dormienti togliendo loro respiro e libertà di movimento, provocando anche orribili visioni. Era dunque facile trovare nella letteratura sassone riferimenti a questo demone notturno (nachtmårt) anche in versione femminile (nachtmarë). Il nome del demone si perde e visto che mare in inglese vuol dire “cavalla”, ecco che in alcuni nasce l’idea di concepire il britannico nightmare come “cavalla della notte”.
Volle così intenderlo il celebre pittore svizzero Johann Heinrich Füssli, che rappresentò in più occasioni quello che nella sua lingua era il nacthmahr. Lo divideva in due mostri separati: un piccolo essere sul petto di una donna che applicava la demoniaca oppressione (martröð in sassone, che diventa in inglese martride) ed una cavalla (mare) affacciata alla finestra. Alcuni ricercatori di Zurigo hanno recentemente sottolineato che Füssli è stato l’artista che più di tutti abbia saputo rendere i sintomi del disordine del sonno, e si sono chiesti come abbia fatto ad identificarli così bene visto che non sembra abbia mai sofferto di alcuna patologia simile (Neurological Disorders in Famous Artists, Karger 2007). In realtà l’artista non faceva che rifarsi alla vasta letteratura medica esistente dal Cinquecento in poi, che descriveva il nightmare esattamente come lo vediamo nei dipinti di Füssli... ad esclusione del cavallo, personale interpretazione dell’autore. Ma in seguito ebbe buona compagnia.
Ma Borges era invece sicurissimo di una cosa: il suo autore preferito, William Shakespeare, ha usato una volta sola il termine nightmare. Ancora una volta abbiamo l’ingrato compito di rettificare il Maestro argentino: Shakespeare non usò mai quel termine coscientemente, perché probabilmente ne ignorava il significato.
Nel Re Lear, scritto probabilmente intorno al 1606, durante un discorso di Edgardo (atto terzo, scena quarta) troviamo il testo di una filastrocca dedicata a San Withold, dove ad un certo punto leggiamo: «He met the Night-Mare / and her nine foals». È noto che questa frase non l’ha inventata Shakespeare: il drammaturgo non ha fatto altro che riportare una filastrocca propiziatoria (night-spell) nota ai suoi tempi e che risaliva alla cultura sassone del demone notturno nachtmarë.
Riportare in drammi e racconti filastrocche popolari, nate - come il citato ponte ponente - dall’ignoranza popolana, era usanza antica. Si usava già dal XIII secolo, e il celeberrimo Geoffrey Chaucer, nel secondo dei Racconti di Canterbury (1380-1390 circa) cita la filastrocca del “bianco Paternoster” in un periodo in cui i teologi si scagliavano contro l’uso popolano di figure religiose per usi scaramantici, quindi pagani. «Gesù e San Benedetto / liberate questo tetto / dagli spiriti maligni! / E tu, sorella di San Pietro, / la nera notte manda indietro / con un bianco Paternoster» (vv. 3483-3486, traduzione di Ermanno Barisone, UTET 1981). Gli “spiriti maligni” citati da Chaucer sono la traduzione italiana di un termine vago che cambia a seconda del manoscritto, ma che è abbastanza facile da capire: nyghtesuerye, o nyghtes verray o nyghtes mare.
Chaucer e Shakespeare, a più di duecento anni di distanza, non fanno altro che riportare parole non loro, storpiate dall’uso popolare - che intanto aveva trasformato il sassone nachtmarë in inglese nightmare - che formano un anatema contro gli spiriti notturni che ha equivalenti in tutta Europa. Ma visto che in Shakespeare il termine nightmare è subito seguito da her nine foals, i recensori come Borges non resistono alla perfetta immagine poetica: “la cavalla della notte e i suoi nove puledri”. Peccato che le cose non siano così semplici.
Visto che la citata filastrocca - dedicata, secondo il settecentesco Thomas Tyrwhitt, al martire milanese San Vitale, trasformato in Withold per fare rima con wold, che sta per world - si rifà ad un bagaglio culturale perduto ed è piena di parole storpiate, è facile trovarne versioni discordanti. Abbiamo così tanto foals che folds - differenza che costrinse il povero Borges a rimangiarsi l’immagine della cavalla con i puledri! - così addirittura anche name told invece che nine foals; il soggetto della filastrocca cambia a seconda delle versioni, così San Withold (scritto St. Withold) lo si ritrova anche nell’accezione Swithold e Swithald; e si arriva al punto che è attestata l’esistenza della scritta night-moore invece che night-mare. Come si può tradurre un testo così impreciso e insicuro?
Non ci riescono neanche gli inglesi stessi, visto che nightmare non è una parola di uso comune ancora nel Settecento. (Figuriamoci ai tempi di Shakespeare!) Quando l’autorevole William Warburton commentò l’opera del drammaturgo britannico agli inizi del ’700, per spiegare la filastrocca del Re Lear disse che era una cantata popolare «against the Epialtes». Perché per scrivere “contro gli incubi” ha dovuto scomodare una parola arcaica come Epialtes? (Dal greco εφιάλτης, efiàltes: esiste anche l’italiano efialte, ma è termine davvero raro da trovare.)
Però il Dictionary cita anche il medico e scrittore scozzese John Arbuthnot (1667-1735), il quale annoverò tra i sintomi dell’apoplessia - oltre a vertigini, rumori nelle orecchie e quant’altro - anche «the night-mares». Dagli inizi del Settecento questa sintomatologia la si ritrova in numerosissime pubblicazioni mediche: la attesta anche l’Encyclopædia Britannica dal 1771 in poi. L’autorevole ed indiscutibile Encyclopædia chissà quante fonti avrà avuto modo di vagliare per studiare il termine... E invece cita solo il medico Arbuthnot!
Insomma, fino all’Ottocento soltanto due persone sono divenute famose per aver usato la parola nightmare nella lingua inglese: William Shakespeare (che non è chiaro se la conoscesse bene) e John Arbuthnot (per il quale era uno dei sintomi dell’apoplessia). Come si traduce in italiano una parola del genere?
La risposta porta a risultati incredibili, ma li vedremo nella prossima puntata.
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