Molto si prestano i veicoli al delitto. Ce ne sono di quelli che incoraggiano addirittura l’ammazzamento: treni e navi in primis. Forse perché nella loro struttura complessa e talvolta labirintica richiamano in qualche modo i meandri delle circonvoluzioni perverse della nostra mente.
Ma la frenetica evoluzione delle cose sta minando alla radice questo regno beato. Le navi sono praticamente scomparse (certo restano quelle da crociera, ma il delitto succoso ha bisogno di intensità di pulsioni, ansia dell’arrivo, abbandono ad amori concitati: roba da ocean liners, altro che pacchetti tutto compreso: un delitto su una nave Costa può andar bene al massimo per una puntata del tenente Colombo).
E i treni! Ahimé, pensate soltanto a quanto ha giovato alla pubblica incolumità l’introduzione in servizio degli Eurostar, con la loro formula open-space, dove ormai è praticamente impossibile assassinare qualcuno in santa pace, ripulire la lama e liberarsi del corpo con quella serena disposizione d’animo che caratterizza il vero signore del crimine. Deve essere stato un questurino ottuso a cancellare i compartimenti e a introdurre quei finestrini bloccati da acquario.
Per ammazzare qualcuno su un treno adesso bisogna salire su robaccia da pendolari, aspettare la coincidenza per Cassino. E chi diavolo ha voglia di ammazzare qualcuno a Cassino? Il delitto, come la poesia per Leopardi, ha bisogno di lontananze.
C’è stata invece un’epoca in cui tutto questo era possibile, e per di più sotto l’allure dell’esotico e del lusso sfrenato, ai bei tempi dell’Orient Express.
Treno mitico, a cominciare dal nome. Mitico e misterioso, tanto che anche i grandi scrittori che lo frequentano finiscono per perdersi, e magari smarrire le valige come un bischero qualsiasi. C’è stata un sacco di confusione, a cominciare dal nome. Perché uno legge Orient Express e immagina una cosa concreta, come quelle nelle scatole dei giochi da ragazzini: una locomotiva, un tender per il carbone e una serie lunghissima di vagoni splendenti, che più belli non si può. I binari, gli scambi e la stazione con gli omini.
E invece no. A cominciare dalla stazione, perché non c’è una stazione dove cominci la magia. Si può salire a bordo a Londra, a Parigi, a Ostenda, a Bruxelles, a Berlino, a Bucarest e si è sempre sull’Orient Express. Di sicuro c’è solo dove la magia finisce, a Costantinopoli, alla stazione Sirkeci, accanto al Pera Palas, l’albergo costruito dalla Wagons-Lits per i suoi clienti, splendido come un sogno orientale. Con l’Orient Express non si parte, si può soltanto arrivare.
Perché l’Orient Express in realtà non è un treno, ma uno spazio immaginario, un luogo dello spirito. Non esiste: quello che tutti abbiamo in mente, un trionfo di legni odorosi e cristalli di Lalique, accoglienti carrozze imbottite crema e blu, tirate da silenziose ma possenti vaporiere con la garbata accortezza di non soffiare mai nemmeno uno sbuffo attraverso i cristalli ornati da tendine di pizzo. Non esiste, perché l’Orient Express non è un treno, ma un sistema virtuale, una rete di vagoni di lusso agganciati e sganciati da treni spesso dozzinali: è solo la permanenza in uno stesso spazio che dà l’impressione di essere su un unico mezzo di trasporto. È un trade mark che copre un sistema articolato di rotte per l’est-sudest, un inganno dei sensi.
E questo scatena una ridda di equivoci tra i nostri investigatori. Quello che se la cava meglio è il vecchio Sherlock Holmes, che all’inizio dei Gay Nineties si imbarca per Vienna dalla Victoria Station, in cerca di una cura per la propria tossicodipendenza nel gabinetto del dottor Sigmund Freud. A Parigi raggiunge la Gare de l’Est, e di lì monta effettivamente sull’Orient Express, linea Parigi-Monaco-Vienna-Budapest. Cosa che non avviene, qualche anno dopo, all’eroe di Graham Greene, in piena confusione ideologica, convinto di essere sull’Orient Express e invece chiuso alla meglio in un vagone dell’Ostenda-Belgrado, che è tutt’altra cosa. Del resto perché stupirsi? Il poveruomo è convinto di andare verso l’alba del comunismo, nei Balcani, nel ‘32! Facile che abbia sbagliato rotta, come tanti altri.
È vero che alla fine, a forza di cambi e movimentazioni, in qualche modo si arriva a Costantinopoli: ma dire di essere sull’Orient è appropriazione indebita. E infatti Graham, gentiluomo e homme du monde, si guarda bene dal dirlo, e chiama Stamboul Train, così alla generica, il suo romanzo. Ma la forza del mito è più forte e in molte edizioni il titolo diventa Orient Express così tout court, alla bruta.
Questa commedia degli equivoci coinvolge anche il grande Poirot nel 1934, con una strana disattenzione per un raffinato come lui. Crede di essere sull’Orient, e in realtà è sul Paris-Simplon, che è tutto un altro treno. E la cosa peggiora nella versione cinematografica del 1974, totalmente americanizzata, a cominciare dal quel vagone-salotto dove tutti si riuniscono per lo show-down, tipico delle carrozze pullman statunitensi, che non ci sono mai state sull’Orient Express, e men che mai nella scivolata finale della corsa, verso i levantini: i vetri molati e i raffinati intarsi erano riservati alle tratte europee, fino a Vienna. Da lì in poi i vagoni diventavano molto più spartani, senza boiseries e ammennicoli, con dodici compartimenti anziché dieci, senza docce e con due sole latrine in testa al vagone.
Altra singolare citazione la troviamo, seppure per vie allusive, in quel La signora scompare del 1938, opera questa del geniale Alfred Hitchcock, in cui, anche se mai detto esplicitamente, tutto sembra alludere a una location sull’Express: in realtà si tratta dell’Alberg Orient Express, linea transalpina che connetteva Parigi con Basilea, Zurigo e di lì Vienna e Budapest. Linea tranquilla e turistica, ma che nel ‘38, causa annessione dell’Austria al Reich, costringe sognatori, spie, miliardarie e fanatici appassionati di cricket a transitare per un bel tratto in compagnia dei lupi.
Ma il peggio capita al povero Bond-mi-chiamo-Bond, nel 1963. In Dalla Russia con amore il nostro eroe tocca veramente il fondo della crisi post-bellica. Pensate, è convinto di salvare i destini dell’occidente a bordo di uno dei suoi massimi simboli, si ammazza di fatica con il suo solito aplomb e finisce per fare la fine di un povero parvenu: pensava di essere sull’Orient Express e invece senza avvedersene è salito sul Direct Orient, un banalissimo treno internazionale, sconclusionato da continui cambi di motrice e personale viaggiante, pieno di strapuntini e seconde classi, molestato da guardie confinarie, venditori ambulanti, carri merci al seguito. E pensare che ai bei tempi i viaggiatori consegnavano i loro passaporti agli addetti della Wagon-lits alla partenza, e li riavevano al loro arrivo, senza il minimo fastidio dalle frontiere: meglio di un container su un TIR al giorno d’oggi. Quello di 007 è solo un omaggio attardato a una grande tradizione morente: nel ’63 avrebbe potuto molto più tranquillamente scappare da Istambul a bordo di un quadrigetto Pan Am o TWA, americanissimi, più sicuri e molto più comodi e veloci. E con delle fior di hostess, per giunta.
Ma il sogno vince sempre sulla realtà: e per strano che possa sembrare, l’Orient Express c’è ancora. Viaggia solo su prenotazione, come uno spettro evocato a suon di sterline, tra Londra e Venezia, in date misteriose intorno al culmine dell’estate. Con un tintinnio di cristalli si mette in moto come un tempo alla Victoria Station, e si avvia morbido come un gattone con il suo carico di romanticoni danarosi. A questa data non risulta che ci sia stato ammazzato mai nessuno. Per fortuna.
(à suivre)
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