Certo l’Europa doveva essere un gran bel posto, a cavallo della Grande Guerra, per i geni del crimine! Niente a che vedere con la rozza America, che nello stesso periodo riusciva al massimo ad albergare qualche epigono di Jessie James, o dei fratelli Dalton: briganti squisitamente locali, svaligiatori buoni al più per dar lavoro a qualche agente della Pinkerton, nonostante i titanici sforzi di Hollywood per trasformarli in eroi nazional-popolari. C’era stata è vero la Mano Nera, pittoresca organizzazione di immigrati nostrani. Ma anche lì siamo al livello di taglieggiatori di pizzerie, una specie di banda della Magliana in versione newyorkese di cui non si accorge nessuno fuori dai confini di Little Italy.
L’Europa è invece il cuore del mondo, ancora. Un luogo dove si può pensare in grande, dove il delitto non è tanto un mezzo per sbarcare il lunario quanto un possente nutrimento dello spirito. Ha aperto i giochi in piena Belle époque un certo prof. Moriarty, il Napoleone del crimine. Siamo però ancora nell’infanzia del Grande Disegno: Moriarty è un demonio in redingote, cela le sue doti sotto modi discreti, rifugge dai riflettori della ribalta. Solo il paranoico e cocainomane Holmes si ostina a riconoscerne la traccia velenosa tra i trafiletti della cronaca nera del Times. È in realtà un fanciullone, attratto come un bon sauvage dalle perline lucenti più che dal Potere. E se tenta il colpo sul tesoro della Torre, non è per impadronirsi dell’Impero (per il quale, scommetto, prova anzi il massimo rispetto), ma per poter giocare nel chiuso della sua residenza tuffandosi tra diamanti e altre gemme d’Oriente, come un Paperone vittoriano.
Poi però nel ’12 e nel ’21 (singolare inversione numerologica) la modernità irrompe nel teatro europeo. Prima di nuovo a Londra. Qui da qualche anno si è trasferito in cerca di avventure e di sterline un irlandese, certo Arthur Henry Ward. L’uomo è fantasioso, malato di quel malinconico sense of wonder che caratterizza spesso la natura celtica dei suoi compatrioti. Frequenta i circoli esoterici, come la Goden Dawn, in cui brillano le stelle di tanti altri isolani celebri e sconclusionati, come quell’Abraham Stoker che si è dato il nome di Bram al momento di cominciare a scoperchiare tombe di vampiri. Anche il nostro Arthur sembra avere problemi con il suo nome, tanto da trovarsene parecchi, in quegli anni in cui batte le viscere di Londra come scribacchino per le gazzette dell’epoca, e scarica sui tavoli dei redattori pagine su pagine di cronache e colore locale. Tanti nomi da mettere in imbarazzo addirittura i biografi, che a un certo punto non ci capiranno più nulla. Ma tra tanti ne sceglie uno destinato ad avere fortuna (la sua leggenda narra che l’abbia trovato scolpito sulla porta di un castello, durante le sue scorribande): Sax Rohmer.
E c’è bisogno davvero di un nome così, per quello che sta per raccontare. Perché Arthur, rovistando tra i bassifondi della città, si è imbattuto in un personaggio peculiare, che farà la sua fortuna. Nel pulviscolo di strade maleodoranti dove hanno trovato rifugio gli immigrati dal Celeste Impero, tra le rosse lampade dei bordelli e le ambigue porte delle fumerie d’oppio, ha cominciato a correre la leggenda di un uomo tenebroso, una specie di Signore della guerra trapiantato dal Levante, che tutto domina come un imperatore dei bassifondi, temuto e incontrastato tra le gang che si spartiscono il ristretto territorio nell’East End, quattro stradacce dalle parti di Limehouse. Arthur si mette sulle tracce dell’uomo, che risponde al poco intrigante nome di mr. King, e con l’ostinazione e lo sprezzo del pericolo tipici della sua razza riesce finalmente a incontrarlo, in una notte nebbiosa, nel vicolo dove tiene corte. La porta di una limousine si apre, e ne scende un uomo in abiti orientali, seguito da una splendida donna che sembra uscire dalle Mille e una notte.
Arthur resta a bocca aperta per quello che vede: «Imagine a person, tall, lean and feline, high-shouldered, with a brow like Shakespeare and a face like Satan, a close-shaven skull, and long, magnetic eyes of the true cat-green. Invest him with all the cruel cunning of an entire Eastern race, accumulated in one giant intellect, with all the resources of science past and present, with all the resources, if you will, of a wealthy government...»
La prosa è imaginifica, ma il concetto è chiaro: una bestia feroce con la mente di un artista. Arthur credeva di scendere nel pantano della sua città, si è trovato davanti al Pericolo Giallo. Esaltato da quello che ha scoperto si precipita a raccontarlo in uno dei suoi articoli. Tanto entusiasmo deve aver suscitato qualche perplessità in redazione, e più di una levata di sopraccigli. Ma del resto i tempi sono favorevoli all’inquietudine. La rivolta dei Boxer, agli inizi del secolo, ha già diffuso l’idea di una Cina riottosa e vendicativa, paziente e spietata come un ragno. Smisurata e pronta a tracimare dai suoi confini. Le alluvioni di paccottiglia di plastica e di scarpacce di finto cuoio sono ancora di là da venire, ma già la Cina ha cominciato a invadere i mercati occidentali con una merce irresistibile: il terrore. E poi c’era già stato Octave Mirbeau, anarchico immaginario, con il suo Le jardin des supplices, che ne aveva dato un’altra immagine, sado-maso e necrofila, spaventosa e affascinante. Il suo racconto scava sotto la superficie esotica, di magnolie e risciò, di buffi codini e di cappelli a cono, per arrivare all’orrore di un mondo totalmente e paurosamente altro, un mondo post-barbaro in cui la ferocia è governata dalla lucidità. È questa la fonte nascosta dell’orrore, da cui attingerà a piene mani Arthur: l’idea che esista un popolo che ha saltato qualche gradino nella scala apparentemente obbligata dell’evoluzionismo borghese, eludendo la consolante convinzione per cui il crescere della civiltà si accompagna sempre all’ingentilirsi dei costumi. Dalle giunche di Shanghai e Canton, esattamente come dai macchinosi tripodi di Wells, stanno invece sbarcando i marziani.
Il francese ha preparato le coscienze ad aspettarsi di tutto dalla Cina. Arthur intuisce che mr. King non è soltanto un uomo: è un continente. E ne prova tanto rispetto che quando decide di raccontarlo in un romanzo gli sembra che i nomi non vadano proprio bene, per tanta grandezza. E così è Sax Rohmer che scrive The Mystery of Fu Manchu, il primo di una serie di romanzi, e mr. King assume il nome dell’antica stirpe imperiale, come Sax ha fatto con quello dei castellani.
Lo scontro tra Oriente e Occidente non può accendersi al livello delle taverne, è la nobiltà antica dei popoli che si prepara alla lotta. Un duello che si protrarrà per quasi mezzo secolo, attraverso diciassette romanzi, un’infinità di racconti e riduzioni cinematografiche, fumetti, figurine e giochi, statuine e pupazzi. Con grande successo di pubblico e talvolta, seppure a denti stretti, di critica.
Intanto, in quegli stessi anni, vive nella sonnacchiosa Bruxelles un altro curioso personaggio, tale Norbert Jacques. Che invece non cambierà mai nome, nonostante si trovi, ad un certo momento della sua vita, con ottimi motivi per farlo.
(à suivre)
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