Il numero di novembre 1927 della celebre rivista pulp Black Mask presenta l’inizio di una leggenda: The Cleaning of Poisonville. Puntata dopo puntata, il febbraio 1928 vede la conclusione della storia firmata da Dashiell Hammett, che nel 1929 - dopo una lunga lotta con gli editori per stabilirne il titolo - fa uscire in volume come Red Harvest, in Italia Piombo e sangue.

Ci sono dei film che ingiustamente sono stati accusati di ispirarsi a questa storia senza dichiararlo: in realtà il plagio è palese e manifesto... ma in esso Hammett non c’entra nulla.

             

Il romanzo Piombo e sangue si apre con la morte di Donald Willson, figlio di quell’affarista Elihu Willson di fatto padrone della cittadina di Personville. Nel passato il ricco proprietario dovette affrontare uno di quegli scioperi che fanno tremare le fondamenta delle città, quegli scioperi che Hammett conosceva bene visto che (a quanto pare) prima di divenire scrittore fu ingaggiato in almeno un caso per “prendere provvedimenti” a riguardo. Chiamare esterni per risolvere, in modo non particolarmente cristallino, le situazioni calde degli scioperanti era usanza anche a Personville, solo che il vecchio Willson aveva esagerato: per sopprimere (non solo metaforicamente) le proteste aveva ingaggiato uno stuolo di criminali della peggior specie, i quali - finito lo sciopero - non avevano alcuna intenzione di andarsene. Personville (o Poisonville, “città del veleno”, come viene amabilmente chiamata da molti) è diventata una terra di mire criminali di ogni genere: in questo clima di terrore, di ricatti incrociati e di sibili di pallottole, il giovane Donald chiama un uomo della Agenzia Continentale di San Francisco ad aiutarlo.

Questi - l’io narrante senza nome protagonista di tanti racconti hammettiani - arriva troppo tardi: il giovane committente è già bello che morto ed il padre è ovviamente infuriato. Chiede al protagonista di trovare l’assassino del figlio, ma quando questi lo trova, il vecchio Willson aumenta la richiesta: «Voglio un uomo che mi ripulisca questo porcile di Personville, - propone al protagonista, - che faccia fuori i topi di fogna, piccoli o grossi che siano. È un lavoro da uomini. È un uomo lei?» Ovviamente sì, e l’accordo è stipulato: per diecimila dollari lo straniero senza nome ripulirà la città dai criminali.

Dashiell Hammett
Dashiell Hammett
Piombo e sangue è un romanzo ricchissimo di quei personaggi, situazioni e linguaggio hardboiled che avrebbero reso celebre l’autore, con tanto di femme fatale spennapolli, Dinah Brand («Soldi», spiegò lei, «più sono meglio è. Mi piacciono») e di “pollo spennato” che farebbe qualsiasi cosa per assecondarla. Il romanzo nel suo complesso è diviso in tre parti ben distinte, ognuna delle quali è “battezzata” da un nome finto fornito dal protagonista senza nome.

La prima, dove l’OP si spaccia per Henry F. Neill, consiste nelle indagini sull’omicidio che apre il romanzo.

La seconda parte, dove il protagonista si fa chiamare «qualcosa come Hunter o Hunt o Huntington» (e il riferimento al “cacciatore” e alla “caccia” non sembra casuale) consiste nell’opera di disgregazione degli equilibri precari di Personville tramite l’utilizzo di segreti scottanti, che mettono gli uni contro gli altri.

La terza ed ultima parte, che si chiude con l’OP che prende il nome di P.F. King, è la resa dei conti finale, lo showdown in cui tutti i nodi vengono al pettine.

Malgrado le molte ingarbugliate vicende della storia - piena di armi, alcol, slang criminale e anche un po’ di laudano per rendere più “allucinogeno” il tutto - Piombo e sangue viene di solito ricordato solo per lo spunto della seconda parte, dove il protagonista semina zizzania fra i criminali facendoli scannare fra di loro. In realtà è una fama immeritata. Il protagonista senza nome, dopo un’iniziale leggerissima scossa alla cesta di serpenti di Personville, non fa altro che ricevere confessioni non richieste che i poco abili criminali si sbrigano a fornirgli (con addirittura del personale di banca che vìola ogni etica spifferando al primo che passa ogni più piccolo dettaglio dei propri correntisti!), mettendogli a disposizione segreti scottanti che lui poi potrà utilizzare andandoli a riferire a chi di dovere.

                       

Questo impianto narrativo in tre sezioni più che assomigliare alle versioni cinematografiche successive ricorda da vicino un’opera probabilmente mai accostata ad Hammett: Le voci di dentro di Eduardo De Filippo.

In questa celebre pièce teatrale il grande drammaturgo napoletano si cala nei panni di un uomo che accusa ingiustamente di omicidio una famiglia del suo palazzo. Questa iniziale scossa dà vita al crollo di detta famiglia: liberati dalle accuse formali, ognuno dei molti appartenenti si presenterà al protagonista svelando storie di odii sepolti e quotidiana violenza familiare. Ogni membro accuserà l’altro senza che neanche ci siano prove che un crimine sia mai stato commesso, proprio come gli appartenenti di Personville si sbrigano a spifferare al protagonista tutto ciò che sanno di incriminante sui propri compaesani, fino alla resa dei conti finale.

La prima edizione italiana di Piombo e sangue è quella Longanesi del 1954 (Gialli Proibiti n. 16): nel 1948, quando venne per la prima volta rappresentato Le voci di Dentro, De Filippo non doveva quindi aver notizia del romanzo di Hammett (a meno che non avesse possibilità di leggere in lingua originale libri d’importazione). La successiva ristampa del romanzo è del 1967, un anno dopo dell’uscita nei cinema di Spara forte, più forte, non capisco, adattamento filmico de Le voci di dentro con Marcello Mastroianni e Rachel Welch: forse qualche editor della Longanesi colse la somiglianza e fece ristampare il romanzo americano.

La pièce del maestro napoletano è l’unico riferimento a Piombo e sangue che ne colga la struttura narrativa (tre parti: “giallo”, gioco al massacro, resa dei conti), la passività del protagonista (sono i cattivi a fornirgli gli strumenti per la loro distruzione) e lo spirito (la voglia di raccontare storie di “normale” criminalità cittadina).

               

Alla fine degli anni Venti il successo di Hammett come scrittore gli valse l’attenzione di Hollywood: nel 1930 la Warner Bros distribuì Roadhouse Nights, trasposizione cinematografica ufficiale di Piombo e sangue che venne subito dimenticata.

Al consumato sceneggiatore e romanziere Ben Hecht venne affidato il compito di trasformare il complesso romanzo di Hammett in sceneggiatura: durante l’operazione oltre a tagli e manomissioni fu inevitabile che Hecht inserisse anche idee e spunti provenienti da proprie opere. Il problema era che i produttori volevano una commedia e non era certo facile trasformare la violenza (fisica e verbale) in risate! Dopo il tritacarne di Hecht, passò Garrett Fort – altro consumato sceneggiatore – a tirare le somme di un film nato già morto.

Il Continental OP diventa un giornalista e con un po’ di salti mortali la storia riesce ad inserire l’esordio cinematografico del cantante-comico Jimmy Durante, il cui numero musicale pare essere l’unica scena sopravvissuta di un film distrutto dalla critica alla sua apparizione e prontamente dimenticato.

                

Trovare - com fanno molti - nel film La sfida del samurai (Yojinbo, 1961) di Akira Kurosawa riferimenti al romanzo Piombo e sangue è davvero difficile: molto più plausibile ritenere che l’esagerato accento posto sul collegamento fra le due opere sia il risultato di un posteriore piccato risentimento nel sentire il “sacro” Per un pugno di dollari accusato di plagio. Ma andiamo con ordine.

"La sfida del samurai"
"La sfida del samurai"
Il protagonista di Hammett è un agente della OP che arriva a Personville rispondendo (in ritardo) ad una richiesta di aiuto; il protagonista di Kurosawa è un ronin, un samurai senza padrone, sbandato e senza meta che capita casualmente in un paesino e, sebbene alla fine persegua “il bene”, il suo iniziale obiettivo dichiarato è di uccidere gente. L’unico tratto in comune di questi due personaggi molto differenti è il nome: quello del romanzo è un personaggio storicamente senza nome che, per l’occasione, se ne inventa ben tre; quello del film è un personaggio nuovo che si inventa il nome di Sanjuro, con il quale in seguito verrà indicato come se fosse il suo. Sanjuro vuol dire “trent’anni” ed è usato come a sottolineare la scarsa importanza del nome e l’indifferenza dell’uomo per come venga chiamato. (Il sequel del 1962 di questo film ha per titolo proprio Sanjuro, ma visto che si svolge dieci anni più avanti, quando gli viene chiesto il nome il protagonista risponde: «Sanjuro, ma vado per i quaranta».)

Personville è una città in mano ad un ricco uomo tenuto in pugno da dei criminali; il paesino di Kurosawa è invece dominato da due famiglie rivali impegnate alla “corsa agli armamenti” (assumendo sempre più tagliagole) per lo scontro finale. L’arrivo di Sanjuro (chiamiamolo così per comodità) sarà a suo modo risolutivo: appena conosciuta la situazione cittadina dalle parole di un oste chiacchierone, l’uomo di spada capisce subito il da farsi.

Inizialmente il protagonista tenta la strada del doppio gioco: si fa assumere da una famiglia come fenomenale “guardia del corpo” (questo infatti vuol dire lo Yojinbo del titolo), spingendola ad andare all’attacco della rivale, per poi sottrarsi all’ultimo minuto e rimanere a guardare le due famiglie - ora di forze apri - affrontarsi e massacrarsi a vicenda. Chiunque vinca, comunque la pace tornerà in paese. Non è assolutamente quello che succede nel romanzo di Hammett, ma in effetti lo spirito del doppio gioco - fra le altre cose - è quello che muove il protagonista senza nome.

Toshiro Mifune
Toshiro Mifune
Il piano però fallisce subito, e a un terzo del film la storia hammettiana smette di avere una qualsiasi vaga aderenza al film di Kurosawa, che invece diventa un gioco di astuzia, di rapimenti e ricatti e di prove di forza, fino al rapidissimo e quasi fulmineo scontro finale. Non c’è alcol né droga, non c’è linguaggio da strada né storie di “mala”, non ci sono bellone mozzafiato e spennapolli né traballanti equilibri di potere fra criminali: insomma, di hammettiano non c’è veramente nulla. A voler essere proprio pignoli, si potrebbe dire che l’intricata rete di ricatti incrociati del romanzo si intravede nel doppio ricatto del film, quando una famiglia rapisce un familiare dell’altra: onestamente, però, è davvero ben misero confronto.

Aggiungendo il fatto che inizialmente il protagonista di Piombo e sangue viene ingaggiato per il lavoro di pulizia, mentre il Sanjuro de La sfida del samurai prende personalmente l’iniziativa per interessi personali, possiamo concludere che i collegamenti fra le due opere sono davvero vaghi, semmai esistano. Sicuramente Kurosawa, amante della letteratura occidentale, avrà letto il romanzo di Hammett, ma poi insieme al fido sceneggiatore Ryuzo Kikushima ha scritto una storia assolutamente a sé stante.

                      

Clint Eastwood
Clint Eastwood
Tutt’altro discorso per quanto riguarda Per un pugno di dollari (1964): so che è intoccabile in quanto scintilla creativa e colonna portante del genere spaghetti western nonché assurto a film di culto (nel senso di culto religioso) e quindi automaticamente impermeabile a qualsiasi critica, ma non è altro che la fedele e pedissequa riproposizione del film di Kurosawa.

Dal Giappone rurale si passa al falso West americano, su location spagnole con attori e tecnici italiani: un melting pot culturale per null’altro che un remake non dichiarato e quindi non onesto.

A parte la mitragliatrice e il “giubbetto antiproiettili” fatto in casa, e forse un vago accenno di personaggio femminile, non ci sono varianti significative rispetto al film di Kurosawa. Il ronin sbandato diventa cowboy sbandato, rude ma dal cuore d’oro; lo stuzzicadenti in bocca diventa sigaro; due famiglie rivali con tanto di criminali assoldati da entrambi; ricatti e rapimenti e lo straniero che inizia col mettere gli uni contro gli altri e poi passa a tecniche più sottili fino alla sparatoria finale. Non bastasse tutto questo, il nutrito stuolo di sceneggiatori del film di Sergio Leone si appropria di una stupenda battuta del film nipponico: «Bottaio, due botti da morto. Chissà, forse anche tre», dice Sanjuro; «Prepara tre casse» dice il cowboy prima del duello, per poi aggiungere «Volevo dire quattro casse», dopo lo scontro a fuoco.

Non c’è davvero altro da dire su un titolo su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro, e di cui ancora oggi viene troppo spesso taciuto il suo stato di “film-fotocopia”.

         

Bruce Willis
Bruce Willis
Malgrado all’epoca dell’uscita in sala qualcuno volle vederci finalmente il vero adattamento cinematografico di Piombo e sangue, Ancora vivo (Last Man Standing, 1996) di Walter Hill è una strana operazione che intorbidisce ancora di più le acque: malgrado le ambientazioni e le atmosfere richiamino fortemente il romanzo hammettiano, il film è un altro fedele - ma stavolta dichiarato - remake di Kurosawa.

Già nei primi fotogrammi il protagonista Bruce Willis - che si fa chiamare John Smith, nome anonimo come Sanjuro - ricalca le orme di Toshiro Mifune: quest’ultimo all’inizio de La sfida del samurai gettava un bastone in terra per vedere dove indicasse e quindi decidere la direzione dove andare; Bruce Willis fa lo stesso, ma con una bottiglia vuota.

La Jericho di Hill non è la Personville di Hammett: è uno strano miscuglio di elementi presi da Kurosawa, mischiati con quelli di Sergio Leone e cucinati con ricetta americana, soprattutto con l’idea che l’America degli anni Novanta aveva dei turbolenti anni Venti: curiosamente i personaggi di Hammett - nati loro sì negli anni Venti - risultano molto più “moderni” di quelli bidimensionali e caricaturali incontrati in Ancora vivo...

Malgrado l’ottimo cast e la regia sicura, il film di Hill rimane un titolo dimenticabile: il peso della responsabilità di illustri predecessori è troppo grave per dei personaggi che assomigliano a caricature di stessi.

              

Può finire qui la travagliata storia di una sceneggiatura giapponese troppo amata per lasciarla in pace? No, perché nel 1999 alla sequenza di eroi che si rifanno al Mifune giapponese si unisce anche il belga Jean-Claude Van Damme, che ripercorre la storia di Yojinbo nel film Fino all’inferno (Inferno, o Desert Heat) di John G. Avildsen.

Eddie Lomax è un «guerriero che ha smarrito il cammino» e arriva in una cittadina infestata da bande criminali. Aggredito e schernito da alcuni facinorosi, decide di rimanere in paese e fare piazza pulita. Come? Ovvio, mettendo gli uni contro gli altri.

Malgrado la firma di Kurosawa non sia accreditata - come al solito - non manca una strizzata d’occhio che non lascia dubbi. Alla fine del film un ragazzo del luogo invita una ragazza in un cinema dove si sta svolgendo una rassegna di samurai movies (anche se il doppiaggio italiano traduce erroneamente “film di kung fu”): «Sono come i western, ma sono giapponesi», spiega il ragazzo. Invita così la giovane a vedere uno dei suoi film preferiti. Quale? Ovvio: Yojinbo...

              

Riuscirà La sfida del samurai a scrollarsi di dosso l’ingombrante fardello dei suoi cloni occidentali e ad essere apprezzato come film a sé, inserito nella poetica registica di Kurosawa? Probabilmente no, visto che il suo sequel è ancora inedito in Italia: non interessano le avventure del ronin Sanjuro, se non per ciò che riguarda i registi successivi che vi si sono “ispirati”.

Riuscirà Piombo e sangue a scrollarsi di dosso ogni riferimento a film che non hanno nulla da spartire con lui? (Compreso Roadhouse nights, finora l’unica pellicola dichiaratamente legata al romanzo) C’è da ben sperare, visto che dal 2004 in Italia il romanzo torna al titolo originale - Raccolto rosso - grazie alla nuova traduzione che Sergio Altieri ha curato per l’edizione Meridiani Mondadori dell’opera hammettiana. È arrivato il tempo di un nuovo raccolto per Red Harvest, e sarà molto rosso...