Terza puntata dello speciale sul mondo che circondò William Shakespeare e la sua opera. Dopo averci illustrato i romanzi che si focalizzano sulla “truffa” che si celerebbe dietro questo nome illustre ed averci fatto conoscere la lingua utilizzata dall’uomo che fu Shakespeare, Chiara Prezzavento ci guida questa volta fra gli altri grandi scrittori che lavorarono nello stesso ambiente, ispirandosi spesso a vicenda.
Diamole quindi subito la parola.
Tendiamo a immaginare Shakespeare come un astro solitario immerso in una specie di vacuum letterario - ma nulla potrebbe essere più diverso dal vero. Il fatto è che la Londra elisabettiana e giacobina pullulava di playwrights, tutti intenti - da soli o in collaborazione - a scrivere, riscrivere, scopiazzare, tagliuzzare, combinare quantità industriali di tragedie, drammi e commedie per saziare l’entusiastica domanda di folle affamate di teatro. Londinesi, provinciali calati in città e visitatori stranieri, popolani, mercanti e aristocratici si affollavano nei teatri e nei cortili di locanda cinque pomeriggi la settimana (a meno che non piovesse troppo forte, si fosse di Quaresima o nel corso di una recrudescenza di peste) aspettandosi di ridere, piangere ed entusiasmarsi, e pretendendo lavori sempre nuovi.
Per un poeta, una carriera nel teatro appariva più stabile e più redditizia della maggior parte delle altre maniere di guadagnarsi da vivere scrivendo - per quanto la fama teatrale fosse ondivaga e relativa, la gloria riservata in gran parte agli attori e la possibilità di mettersi nei guai con le autorità piuttosto concreta. Inoltre, al teatro era associato uno stigma sociale ereditato pari pari dal Medioevo, al punto che in teoria all’intero della cerchia delle mura cittadine non potevano tenersi rappresentazioni, né poteva abitarvi chi fosse in qualche modo legato ai teatri. Ma in realtà questi divieti non erano applicati in modo particolarmente stretto, e la combinazione di fama e denaro funzionava come una sirena per molti eruditi squattrinati usciti dalle Università, come gli University Wits, giovanotti di molte lauree e belle speranze, che confluirono a Londra negli Anni Ottanta del Cinquecento e scrissero per le compagnie più importanti.
Il capofila di questa schiera è senz’altro Christopher Marlowe, figlio di un calzolaio di Canterbury, Master of Arts a Cambridge, ateo, probabile spia, scapestrato e, fra un guaio e l’altro, re-inventore del pentametro giambico sciolto. Insieme a Ned Alleyn, attore, capocomico e ragazzo prodigio delle scene, Marlowe travolse Londra con le sue opere fiammeggianti: le due parti di Tamerlano il Grande, lo sconvolgente Doctor Faustus, L’ebreo di Malta - cui Shakespeare si sarebbe ispirato non poco per Il Mercante di Venezia - e il Massacro a Parigi. A molti piace speculare su che cosa avrebbe potuto scrivere il veemente Kit se non fosse morto a ventinove anni in una dubbia rissa di taverna.
Tra i suoi colleghi possiamo contare il più grigio George Peele, perennemente indebitato e specializzato in graziosi intrattenimenti per la Corte e le occasioni ufficiali della città; Thomas Lodge, figlio diseredato di un sindaco di Londra, avventuriero e in seguito medico; Thomas Watson, viaggiatore, padre del sonetto inglese e specializzato in burle - quelle parentesi facete e spesso scurrili che per tradizione s’infilavano anche nelle tragedie più truci - e Robert Greene. Greene era un autore di commedie romantiche, un pessimo tragediografo e un libellista velenosissimo, che incarnava nella più livorosa delle maniere il senso di risentita superiorità che i Wits provavano nei confronti di quegli autori che pretendevano di scrivere per il teatro senza il beneficio di un’educazione universitaria. Generazioni di studiosi hanno tramandato la certezza che la furiosa polemica di Greene nei confronti del Corvo Arrampicatore, che ardiva farsi bello delle piume di gente migliore di lui, fosse diretta contro Shakespeare, ma in anni più recenti si è ventilata l’ipotesi che il bersaglio fosse Ned Alleyn - e in realtà avrebbe potuto essere uno qualsiasi degli scrittori non laureati. Per esempio Thomas Kyd, uno scrivano pubblico che divenne celebre per una sola opera, la ferocissima e sanguinosa Tragedia Spagnola, prototipo della Revenge Tragedy in cui muoiono tutti. E la cosa singolare è che a quanto se ne sa Kyd era una brava, placida e complessata persona. Chissà se s’immaginava nei panni del suo protagonista Hyeronimo, intento ad avvelenare, squartare e altrimenti eliminare - invece dei cortigiani spagnoli - gli altezzosi University Wits...
Anche Ben Jonson non era mai andato oltre la Grammar School, ma poi, formidabile autodidatta, aveva messo insieme un’erudizione di tutto rispetto - e di conseguenza si sentiva tenuto a mettere i puntini sulle i quando lo si assimilava agli altri autori “ineducati”. Pur pensando tutto il bene possibile di Shakespeare, il buon Ben teneva a precisare che il suo collega «conosceva pochissimo il Latino e il Greco per niente». D’altronde, università o meno, Jonson doveva avere un ego delle dimensioni di un fox terrier e un temperamento infiammabile, perché era sempre pronto alla rissa e uccise in duello un attore con cui era venuto a diverbio. Mi domando se sapesse che Philip Henslowe (uno dei grandi impresari teatrali del tempo, al cui diario dobbiamo molto di quel che sappiamo sul funzionamento quotidiano dei teatri), nelle cattive giornate lo definiva “il muratore”, in non proprio benevolo riferimento all’apprendistato giovanile di cui Jonson andava così poco orgoglioso. Geniale autore di commedie che satireggiavano sui tempi, sul costume e sulla Corte (e che costarono al loro autore più di un soggiorno in prigione), Jonson aveva la passione - ma non il talento - per le tragedie d’ambientazione classica, che gli riuscivano dottissime, pesantissime e oscurissime. Nessuna meraviglia che la sua fama sia legata piuttosto a commedie come Volpone o L’alchimista.
Si era d’altronde negli anni in cui nuove forme di commedia - per lo più di ambientazione contemporanea - si accostavano a tragedia e dramma storico nel gusto del pubblico. Due esponenti di questo nuovo corso che portava a teatro, anziché dèi dell’Olimpo e regine antiche, vizi e virtù della Londra contemporanea, erano Fletcher e Beaumont, che si nominano sempre in coppia come una ditta, perché vivevano e lavoravano insieme, dividendo casa, scrivania, vestiti, amante - almeno fino a quando Beaumont non si sposò e il sodalizio finì.
Francis Beaumont, il più giovane dei due, apparteneva già alla seconda generazione dell’età dell’oro del teatro inglese - quella che, con la morte della Grande Elisabetta nel 1603, si ritrovava ad avere a che fare con la nuova corte Stuart dai gusti più sofisticati e più cupi al tempo stesso. A corte si volevano i masques - complessi intrattenimenti le cui meraviglie scenografiche si possono considerare antenate degli effetti speciali, e nei teatri la folla chiedeva commedie più taglienti, tragedie più brutali, come quelle di John Webster, che nei suoi lavori cercava di raccogliere l’abbondanza di sangue di Kyd, la grandiosità di Marlowe, la desolazione dei lavori più cupi di Shakespeare e la vena tagliente di Jonson.
Tutti questi autori e molti altri influenzarono Shakespeare e ne furono influenzati a vari stadi delle rispettive carriere. Nessun autore germoglia da sé nel vuoto, e Shakespeare non fa eccezione - specialmente in un mondo letterario in cui le collaborazioni erano la norma anziché l’eccezione e il concetto di originalità meno rilevante di quanto lo sia oggi. La più casuale delle letture rivela una fitta rete di prestiti, citazioni, echi e somiglianze tra i numerosi autori attivi in quello che dev’essere stato un ambiente di meravigliosa incandescenza intellettuale.
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