Questa è un’anteprima del primo capitolo del romanzo storico Il Cavaliere d’Islanda, dall’autrice de “Il mago e l’imperatrice” e “Il sole invincibile”.
Il libro è disponibile in libreria nella Collezione Omnibus Mondadori (ISBN 978-88-04-61607-8).
Si ringrazia l’autrice e la Mondadori per la gentile disponibilità.
Vagando nella brughiera d’Islanda in quel pomeriggio d’estate dell’anno 1193 dall’incarnazione di Cristo, nella mano la moneta venuta dal ventre dello squalo, Kveld non sapeva che alla fine di quello stesso giorno, in cui compiva il tredicesimo anno di età, sarebbe passato per la sua prima morte.
Ma un sentimento simile all’avvicinarsi della morte lo aveva colto quando i pescatori avevano sventrato il pesce, e sulla roccia si erano rovesciate le interiora nere e biancastre, i resti di pesci più piccoli, un brandello di rete da pesca e il piccolo disco di metallo. I pescatori avevano abbandonato i rifiuti sulla spiaggia, non accorgendosi della moneta. Kveld l’aveva raccolta, viscida di sangue freddo, e l’aveva lavata in mare. Attraverso l’acqua limpida aveva visto i simboli coniati sui due lati. Pur senza conoscerne il significato gli erano sembrati la chiave del suo destino, come la stella che guidava i suoi antenati vichinghi in navigazione.
La moneta non era d’oro né d’argento. Non mostrava la testa di nessun re o papa o imperatore. Era un semplice e sottile pezzo di ferro di forma rotonda; su un lato recava un cerchio più piccolo e, inscritta nel cerchio, una croce ben diversa da quella a T eretta sull’altare della chiesa di Borg, una croce dai bracci della medesima lunghezza. Sull’altro lato il simbolo, semicancellato, era ancora un cerchio, dal quale si dipartivano linee doppie simili a raggi, o a petali. Un sole, o un fiore.
Secondo la völva, la profetessa, quei segni venivano da un paese scomparso e dimenticato, dalle terre che una volta erano abitate e che il mare ha sommerso, migliaia e migliaia di anni prima della nascita di Cristo.
«Allora, questa è la moneta più vecchia del mondo?» aveva chiesto Kveld. «Deve valere moltissimo.»
La völva aveva sorriso.
«No. La moneta non vale nulla, è stata fabbricata da pochi anni. L’aveva con sé qualche viaggiatore; è caduta in mare e il pesce l’ha inghiottita. La moneta non è niente, i segni sono tutto. I segni, mi comprendi? Sono i segni che hanno valore. vengono da molto lontano, dalla sapienza degli antichi saggi. Sono morti; ma il loro pensiero è stato tramandato ad altri saggi, e vive e circola ancora per il mondo, per vie segrete. Come il ventre di uno stupido pesce che mangia tutto quello che gli capita fra le fauci.»
La völva era una donna vecchia, molto vecchia; nessuno sapeva con precisione quanti anni avesse. Il tempo l’aveva segnata come fa con la buccia di un frutto, ma i pochi che la ricordavano bambina dicevano che era sempre stata così: i capelli bianchi come neve, la statura minuta di un troll, e gli occhi glauchi, penetranti e curiosi. Era sempre stata uguale a se stessa, unica e diversa da ogni altro.
Gli abitanti del villaggio l’avevano immediatamente e per sempre accettata come unica e diversa da ogni altro, eppure utile e necessaria. Non li disturbava il fatto che fosse fra loro e nello stesso tempo altrove. Quando lei era andata ad abitare nel capanno vicino al faro, lontana dalle altre case eppure raggiungibile, era sembrato a tutti giusto e naturale che lei stesse fra il cielo, il mare e gli esseri umani. La terra intorno al capanno, attraversata da un fiume sotterraneo caldo, le dava la possibilità di coltivare quello che le occorreva per vivere. La völva non parlava quasi mai se non per mettere qualcuno sull’avviso, o quando veniva interrogata per consiglio o aiuto. Se un tempo sicuramente aveva avuto un nome, era stato dimenticato.
«E che cosa significano, i segni?»
«Non lo so; non mi è dato saperlo.»
La völva non aveva studiato, e le sue visioni, i suoi oracoli, non avevano il senso compiuto di un resoconto scritto. Erano piuttosto come i suoni e le immagini che nel momento di risvegliarsi da un sogno, o di scivolare nel sonno, sembrano reali. Erano parole su una pergamena in cui mancavano parti di testo.
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