Tenutosi dal 20 al 28 aprile 2018 a Udine presso il Teatro Nuovo Giovanni da Udine e al Visionario, il FEFF 20 è stato caratterizzato da due tendenze principali.
Da un lato, l’attenzione si è focalizzata sulle opere prime (o seconde), per le quali è stato istituito per la prima volta il premio Gelso Bianco, che la giuria di esperti ha assegnato al sud coreano Last Child di Shin Dong-seok. Escluso il film vincitore, che purtroppo la sottoscritta non è riuscita a vedere, fra le pellicole esordienti o quasi esordienti da me viste, il film di animazione On Happiness Road di Sung Hsin Yin è stata sicuramente la più interessante: una fiaba esistenziale sulle scelte da compiere per riuscire, se non proprio a trovare quell’utopia tipicamente umana chiamata “felicità”, almeno un proprio sereno equilibrio e una capacità di leggere la realtà e se stesse “con gli occhi interiori”, quelli del cuore, ma anche un piccolo film al femminile sul rapporto fra nonna e nipote, dove le semplici e difficili titubanze del sé trovano corpo in una visionarietà semplice, umile ma efficace.
Deludente occasione mancata è risultato invece Transcendent di Zhang Lizi, sulla carta uno sci-fi incentrato sulla libera scelta per cyborg programmati con scadenza ma in realtà un pasticcio poco convincente di bromance, pugilato e bambini ribelli; è totalmente inutile ai fini della storia. Voler poi scomodare Black Mirror è stato davvero pretenzioso e arrogante da parte del regista, visto che il film non possiede quella cupa spietatezza da cui la serie televisiva citata è caratterizzata, anzi, tutto si riconduce alla fine a storiella adolescenziale senza spessore.
Occasione mancata è stata anche l’opera seconda di Xin Yukun, Wrath of Silence, che parte come un film di denuncia sulla corruzione delle ditte e sulla svendita del lavoro dei minatori in nome del denaro per poi perdersi in presunte derive di rabbia di classe, con un finale che dovrebbe forse omaggiare l’esplosione di rabbia filmata da Antonioni in Zabriskie Point ma che lascia abbastanza perplessi. L’altra tendenza presente al FEFF di quest’anno è stata quella dei film a sfondo storico, che sembrano ormai costituire un filone di grande interesse in Oriente sia per i registi che per gli spettatori, soprattutto in Corea del Sud e in Cina, regalandoci dei preziosi scorci su avvenimenti spesso poco noti in Occidente, dove la storia tende ad avere un monosapore eurocentrico.
In effetti, i film più interessanti fra quelli da me visionati presenti alla ventesima edizione del FEFF sono stati proprio quelli storici.
A cominciare da 1987: When The Day Comes di Jang Joon-hwan, meritatissimo Gelso d'Oro, a cui faceva da contraltare il bel documentario Courtesy to the Nation di Gwon Gyung-won, il FEFF 20 ha confermato l'indubbio talento dei registi coreani nel cantare con toni amari e assetati di giustizia alcuni episodi nerissimi della propria storia recente – entrambi i film parlano infatti della repressione dittatoriale della libertà di parola e del cosiddetto June Democratic Uprising del 1987 in particolare – ma anche lontana, con le atrocità subite dai coreani per mano giapponese durante la Guerra del Pacifico (o Seconda Guerra Mondiale), come narrato nell'epico film The Battleship Island di Ryoo Seung-Wan.
Ma i registi e le registe cinesi non sono stati da meno nel voler narrare storie di coraggio e di umanità, come in Our Time Will Come di Anne Hui, dove stralci di un mockumentary-intervista in bianco e nero ci introducono nella storia della resistenza hongkonghese all’occupazione giapponese avvenuta fra il 1941 e il 1945, con figure di donne forti e capaci di andare al di là del proprio interesse personale in nome della libertà, oppure nell’intenso Youth, dramma generazionale di Feng Xiaogang sullo sfondo dell’ultima parte dell’era maoista, passando per la micro guerra sino-vietnamita del 1979 e dritto fin nell’era delle riforme economiche di Deng Xiaoping: un film dove il contrasto fra la purezza dell’eroe e dell’eroina e la meschinità ( o il semplice piegarsi alle regole) di tutti gli altri è puntellato citazioni di classici della cinematografia e della danza di propaganda comunista quali Red Detachment of Women, seppur con evidente sensibilità contemporanea.
Nel suo piccolo, anche il film di animazione taiwanese On Happiness Road è in effetti uno scorcio sulla storia, con i suoi riferimenti alla mancanza di libertà durante il regime dittatoriale di Chiang Kai-shek fra il 1950 e il 1975 e i numerosi strascichi che si protrassero fino al 1986 durante la dittatura “illuminata” del figlio Chiang Ching-kuo.
Un FEFF, insomma, che dopo ben 20 anni vita guarda con speranza al futuro alla ricerca di nuovi talenti, ma che ci spinge anche ad osservare il passato perché ricordare è ciò che permette agli esseri umani di avere una coscienza in quanto civiltà in grado di sopravvivere al disorientamento e alla frammentarietà di un presente che sembra farsi sempre più eterno e minacciosamente immutabile.
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